Covid-19 e diritto alla verità

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Giorgio Agamben

È oramai consuetudine leggere o ascoltare bollettini allarmistici di contagiati, ricoverati, morti che salgono e scendono in un turbinio di numeri senza senso, così come sono diventati consuetudine gli appelli ossessivi dei media al rispetto del distanziamento sociale (che Agamben definisce “un eufemismo introdotto nel lessico quotidiano al posto del più crudo confinamento [1] ) e all’uso della mascherina. Consuetudine è la rinuncia ai nostri diritti costituzionali: dal diritto alla scelta terapeutica al diritto di libera associazione, di libero spostamento e di libera opinione. Assistiamo, invece, e anche questa è una consuetudine, a forze dell’ordine che sanzionano i cittadini perché violano delle direttive amministrative incostituzionali, a cittadini (tra cui un sacerdote) sottoposti a TSO perché manifestano pacificamente il proprio pensiero che ha la disdicevole peculiarità di diverge da quello della Scienza Ufficiale (il nuovo Dio), diventato l’unica fonte di salvezza autorizzata.

Il governo, su “suggerimento” dei nuovi sacerdoti del Dio Scienza, si appresta a reiterare le imposizioni incostituzionali che stanno cambiando le nostre abitudini. Ed essendo il nuovo stile di vita e le “nuove abitudini” diventate consuetudine a suon di DPCM, di verbali salati, di denunce e di TSO per i trasgressori, non c’è da stupirsi se tali imposizioni transitorie diventeranno a breve “la legge” in base al principio giuridico della consuetudine [2] .

In questo scenario, che fino a pochi mesi fa avremmo definito “fantasioso” e “impossibile”, si avverte la cocente mancanza della verità, che Agamben considera (ma non solo lui) il primo dei diritti umani. I media mainstream (gli “Editori responsabilii responsabili

ori”) fanno a gara per denunciare le “fake news” dei non allineati – com’è capitato anche allo stesso Agamben – proponendo le loro fake news” di regime benedette dai sacerdoti della Scienza Ufficiale. Ma poco o nulla di tutto ciò ha a che fare con la verità.


Lo stato d'eccezione e l'Italia cavia di un nuovo totalitarismo. L'allarme del filosofo Agamben

Di Antonio Socci – Proprio mentre Giuseppe Conte annuncia il prolungamento dello stato d’emergenza è uscito il libro di Giorgio Agamben, “A che punto siamo? L'epidemia come politica” (Quodlibet) dove il filosofo raccoglie i suoi interventi, così controversi, scritti durante e contro il lockdown, e dove aveva previsto che lo stato d’eccezione sarebbe stato prolungato.

Agamben è uno dei filosofi italiani più tradotti e stimati all’estero. Infatti è stato intervistato da diversi giornali stranieri e (sebbene sia, da sempre, culturalmente “di sinistra”) è stato ignorato dai nostri media che non sopportano pensieri difformi.

Quello che vorrebbe farci vedere è “la trasformazione di cui siamo testimoni” nella vita politica e sociale, che “opera attraverso l’instaurazione di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute”.

Il pensatore denuncia la trasformazione dello stato d’eccezione in una prassi che diventerà sempre più normale, finendo per liquidare la democrazia borghese parlamentare così come l’abbiamo finora conosciuta, trasformandola in un’altra cosa che non è ancora definita.

OBIEZIONE E RISPOSTA

Certo, si può obiettare che la situazione per il Covid, a febbraio-marzo, era allarmante. Secondo i suoi critici, non si poteva fare diversamente: il filosofo dimentica il grave pericolo da cui eravamo minacciati. Ma la risposta di Agamben a questa obiezione, fa riflettere. Anzitutto – spiega – si è limitato senza motivo il primo dei diritti umani: “il diritto alla verità”. Egli parla di “una gigantesca operazione di falsificazione della verità”.

Si può obiettare che forse è stata più superficialità e dilettantismo che falsificazione. O almeno si spera. Però quando Agamben scrive che “i dati sull’epidemia sono forniti in modo generico e senza alcun criterio di scientificità”, che “dare una cifra di decessi senza metterla in relazione con la mortalità annua nello stesso periodo e senza specificare la causa effettiva della morte non ha alcun significato”, bisogna riconoscere che solleva un problema vero.

Dice: “non si tiene alcun conto del fatto, pur dichiarato, che viene contato come deceduto per Covid-19 anche il paziente positivo che è morto per infarto o per un’altra causa qualsiasi” (e non si ricordano mai le cifre annuali dei morti per le diverse cause e patologie, effettivamente superiori a quelle per Covid).

Bisognerebbe aggiungere la mancanza di verità sulle origini del virus e sui tempi della sua diffusione (di cui ha colpa il regime cinese), poi le indicazioni delle autorità date e poi capovolte (per esempio sulle mascherine), infine il grande punto interrogativo sulle terapie e i farmaci. È mancata perfino la verità su ciò che ha portato ai tagli alla sanità degli anni scorsi.

DIRE LA VERITÀ

Per decidere una così drastica sospensione dei diritti fondamentali – dice in sostanza Agamben – le autorità potevano e dovevano prima spiegare esattamente, con estrema precisione e accuratezza, tutti i termini del problema al popolo e ai suoi rappresentanti e solo valutando l’autentica realtà dei fatti si potevano poi assumere certe misure di protezione, con tempi e modalità democraticamente deliberate e controllate (magari anche informando giorno per giorno sull’efficacia delle diverse terapie in corso).

In effetti così non è stato. E non si dica che non se n’è avuto il tempo, perché lo stato d’emergenza è stato decretato dal governo a fine gennaio e per più di un mese non è stato fatto praticamente nulla, passando da una sostanziale sottovalutazione a un improvviso allarme apocalittico.

ESPERIMENTO DI MASSA

Nella genericità dell’allarme si è poi prodotto un panico collettivo che ha reso accettabile tutto (“la diffusione del terrore sanitario ha avuto bisogno di un apparato mediatico concorde e senza faglie”).

Così – spiega Agamben – si è potuto verificare che per la paura della morte “gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature totalitarie”.

Questo stato di eccezione, secondo il filosofo, “sarà ricordato come la più lunga sospensione della legalità nella storia del Paese, attuata senza che né i cittadini né, soprattutto, le istituzioni deputate abbiano avuto nulla da obiettare”.

Agamben dà un giudizio durissimo su ciò che è accaduto (agli storici futuri “questo periodo apparirà come uno dei momenti più vergognosi della storia italiana”) ed è ancora più duro su “coloro che lo hanno guidato e governato come degli irresponsabili privi di ogni scrupolo etico”. Forse eccede, si può pensare che vi sia stata semmai improvvisazione e carenza di sensibilità democratica e di senso delle istituzioni, ma ai posteri l’ardua sentenza: l’aspetto più importante della riflessione di Agamben è un altro.

Egli sostiene che “dopo l’esempio cinese, proprio l’Italia è stata per l’Occidente il laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema”.

LIQUIDAZIONE DELLA DEMOCRAZIA

Il fatto stesso che un totalitarismo sia stato il modello è emblematico, secondo Agamben, che poi scrive: “Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata – per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze”.

Possiamo dissentire, ma è chiaro da anni che il liberismo non è più sinonimo di liberaldemocrazia, che il mercatismo e il grande potere finanziario che domina sugli stati hanno devastato l’economia reale, il tessuto produttivo industriale dell’occidente e la borghesia, quel ceto medio che era sempre stato il pilastro delle democrazie.

Ed è chiaro da anni che il mercatismo (propagandato da gran parte dei media in tutte le sue forme: non ultima quella dell’Europa maastrichtiana) ha sempre più in odio le democrazie, i parlamenti, le sovranità popolari e gli stati nazionali che rappresentano tanti ostacoli a un suo incontrastato dominio.

In Italia è lampante da anni che il Parlamento e gli elettori contano sempre meno e sempre più si cerca di commissariarci, di comandarci per interposta persona e che in nome del vincolo esterno finiranno per governarci totalmente da Berlino e Bruxelles (o dalle Borse). C’è dunque di che riflettere.

EFFETTO SINISTRO

Infine si segnalano due pensieri di Agamben. Il primo: “la biosicurezza si è dimostrata capace di presentare l’assoluta cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come la massima forma di partecipazione civica. Si è così potuto assistere al paradosso di organizzazioni di sinistra, tradizionalmente abituate a rivendicare diritti e denunciare violazioni della costituzione, accettare senza riserve limitazioni delle libertà decise con decreti ministeriali privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato di poter imporre”.

Viene da chiedersi: che avrebbero fatto se a decidere quelle misure fosse stato il centrodestra?

Il secondo pensiero: “La pandemia ha mostrato senza possibili dubbi che il cittadino si riduce alla sua nuda esistenza biologica. In questo modo egli si avvicina alla figura del rifugiato fin quasi a confondersi con essa”.

TRUMP E LA SINISTRA

È stato chiesto al filosofo di sinistra se è imbarazzato dal fatto che sono stati leader di destra come Trump e Bolsonaro i più critici del lockdown alla maniera cinese.

Risposta: “Anche in questo caso si può misurare il grado di confusione in cui la situazione di emergenza ha gettato le menti di coloro che dovrebbero restare lucidi, come anche a che punto l’opposizione fra destra e sinistra si sia completamente svuotata di ogni contenuto politico reale. Una verità resta tale sia che sia detta a sinistra che se viene enunciata a destra”.

Fonte: Lo straniero


Note:

 [1] ⬆︎ https://www.ariannaeditrice.it/articoli/ormai-solo-un-dio-ci-puo-salvare-risposta-a-giorgio-agamben-ii-parte

 [2] ⬆︎ CONSUETUDINE (dal lat. consuetudo; fr. coutume; sp. costumbre; ted. Gewohnheit; ingl. custom law). - È una delle fonti di diritto positivo (ius non scriptum): quella, cioè, che si concreta nell'osservanza costante, uniforme e generale di una norma di condotta, compiuta dai membri di una comunanza sociale con la convinzione della sua obbligatorietà giuridica. http://www.treccani.it/enciclopedia/consuetudine_%28Enciclopedia-Italiana%29/

E ancora:

1. SU CONSUETUDINE E CONSUETUDINE GIURIDICA IN GENERALE

Consuetudine, in italiano, come parola generica senza aggettivi, indica qualcosa che è abituale, ripetuto nel tempo da una o molte persone: in questo senso così generale e generico è parola che può essere sostituita da costume, uso, abito, tradizione, abitudine, prassi. Con queste parole ci si riferisce anzitutto ad un fatto constatabile; poiché si tratta di qualcosa che si ripete nel tempo c’è una parola che rende perfettamente la cosa constatabile e che verrà continuamente usata in questa voce: regolarità.

Vi sono, abitudini, costumi, regolarità, usi alimentari, sessuali, sociali, linguistici e così via, cioè consuetudini che nessuno giudicherebbe giuridiche.

Esiste però un caso da lungo tempo riconosciuto e codificato nel quale un uso seguito da una collettività e prolungato nel tempo genera, sia in molti anche se non necessariamente in tutti i soggetti che praticano tale uso, sia nei giudici e nelle autorità che governano tale comunità, la consapevolezza da un lato della esistenza della regola di comportamento che si manifesta nell’uso e la convinzione dall’altro che è male non seguire tale regola e che, se violazione della regola dovesse venire compiuta da qualcuno, alla violazione dovrebbe seguire una adeguata sanzione. http://www.treccani.it/enciclopedia/consuetudine-costituzionale_(Diritto-on-line)/

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