Torino: il caso Vasta — Quando la psichiatria deporta!

Pubblicato da Redazione il
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Ogni anno la televisione ripropone le nefaste immagini dell'olocausto per informare e non dimenticare. Ogni anno si celebra il "giorno della memoria" affinché tali orrori non si ripetano. Eppure, ogni anno, l'ideologia ispiratrice di quegli orrori, la psichiatria, continua impunemente le sue pratiche incivili e inumane. Come questo caso di deportazione in un giorno di agosto 2006...

Torino: il caso Vasta - Quando la psichiatria deporta!

appello inviato il 22 Agosto 2006 da Tristano Ajmone, Presidente OISM

Ricevo una telefonata da Giorgio Antonucci: "Tristano hai visto cosa è successo a Torino? Una cosa terribile: la psichiatria ha incarcerato una signora solo perché aveva scelto di vivere a modo suo col proprio compagno! Fate qualcosa, protestate, andatela a trovare, fatele sapere che non è sola, che ci siamo noi!" Mi metto all'opera e cerco di ricostruire l'accaduto.

Trovo un articolo de La Stampa, del 17 Agosto 2006: Eremiti di città: barricati in casa da sette anni Un'ex bancaria e il marito pensionato In pieno centro come barboni in una stalla. L'accaduto non è meno racappricciante del modo in cui il giornalista, tale Lodovico Poletto, presenta la storia.

Poletto inizia l'articolo scandalistico descrivendo la storia di Daniela Vasta "una donna in apparenza lucida e cosciente, che ha scelto di isolarsi dal mondo" e di suo marito "che per starle accanto ha mollato un bel lavoro da impiegato all'Ufficio imposte e si è chiuso con lei in un appartamento di 35 metri quadri". Da lì prendono le mosse i capi d'accusa morale che volgono a giustificare l'incarcerazione arbitraria della donna, avvenuta per mano degli psichiatri: "Vivere senza acqua, senza luce elettrica, senza gas, senza mai leggere un giornale, o ascoltare un tg ..."

Il resoconto procede tendenziosamente, mischiando giudizi personali e fatti in un deplorevole esempio di ignobile retorica il cui unico scopo palese è tentare di rendere tollerabile la crudezza dell'accaduto: Un uomo ed una donna, con alle spalle carriere di successo hanno deciso di volersi isolare e condurre la propria vita secondo i propri gusti. Da anni vivevano in quel modo, assieme alla figlia che si sta laureando. Nessuna lamentela, nessuna segnalazione da parte dei vicini, fino al fatidico giorno: "Se non fosse stato per una perdita d'acqua, che durava da tempo, forse questa storia assurda non l'avrebbero mai scoperta. Invece le infiltrazioni hanno finito per rovinare il mobilio ad un vicino ... si è rivolto al Comune e ai vigili del fuoco. Che sfondando una finestra di quell'appartamento ... hanno scoperto l'orrore di questa prigionia volontaria in un appartamento che è quasi una stalla."

Appunto: una prigionia volontaria! una scelta di vita intrapresa di comune accordo, portata avanti da persone che si mantenevano con il proprio denaro, senza arrecare disturbo al vicinato. Perché allora questa donna è stata ricoverata con la forza in un repartino psichiatrico? L'unica ragione plausibile è che il loro stile di vita offende la morale comune, il perbenismo di persone come questo giornalista, il quale lamenta "Tutto ciò che c'era fuori non li riguardava più: non la città che cambia, non le Olimpiadi, non la gente che sciama poche strade più in là con i vestiti alla moda e le auto di lusso." Un po' come dire che se non segui le Olimpiadi, i tg, il calcio, la moda e le macchine di lusso, non sei in, sei out - sei fuori dal giro. E dove finisce chi è fuori dal giro? In psichiatria, ovviamente.

A questo punto dell'articolo il moralista Poletto si trova a dover raggirare l'ostacolo del buon senso: come spiegare la scelta di vita di queste persone? In fondo si tratta di un uomo ed una donna di 62 e 55 anni, con alle spalle carriere decorose, e che - soprattutto - non hanno commesso alcun crimine. Poletto ammette "non è una questione di soldi", quindi cos'è?

La risposta che giustifica tutto questo è la solita tiritera psichiatrica: "Li ha ridotti in questo stato la psicosi di lei che ha finito per condizionare e stravolgere le abitudini di tutta la famiglia. «Una psicosi sulle cui caratteristiche bisogna ancora indagare» dice Giorgio Gallino, medico di guardia nel reparto di psichiatria dell'ospedale Mauriziano, dove lei è ricoverata da ieri pomeriggio."

La verità nuda e cruda è che la psichiatria ha, ancora una volta, rivelato quello che è il suo vero mandato: un sistema di controllo sociale mascherato da medicina, il cui unico scopo è reprimere la dissidenza e l'anticonformismo per conto dello Stato.

È vergognoso che i mezzi mediatici si prestino a coprire queste manovre da regime totalitario infarcendo i propri articoli con giustificazioni morali che nulla hanno da invidiare alle motivazioni storiche con cui la psichiatria perseguitò ebrei, zingari, omossesuali e ogni tipo di persona giudicata socialmente inutile e fastidiosa.

D'altronde questo tentativo giornalistico di coprire una manovra di incarcerazione arbitraria è alquanto goffo. Dall'articolo stesso trapelano dettagli che invitano alla riflessione. Scrive infatti di Daniela Vasta: "Sa dove si trova, sa che suo marito se lo sono portato via i poliziotti e che rischia una denuncia per resistenza. È consapevole di tutto e parla con tutti. Spiega che Morena è brava e studiosa. Che loro volevano vivere così, senza vedere nessuno. «Dopo la laurea di Morena ce ne saremmo andati da lì. Adesso denuncio tutti: il sindaco e i pompieri. Non dovevano portarci via». A chi le fa notare che ha bisogno d'aiuto, lei ribatte quasi scocciata: «Abbiamo scelto così, era meglio così. Adesso avete rovinato mia figlia: che figura farà con la gente?»".

Quello che risulta intollerabile, a chi giustifica questo sistema di privazione della libertà, è l'idea che le persone possano scegliere di discostarsi dallo stile di vita «comune», quello omologato e approvato da uno Stato orientato all'omogenizzazione delle masse. A nulla vale il fatto che persone come Daniela ribadiscano la propria scelta di vita, la propria volontà a reclamare la libertà di condurre la propria vita famigliare come meglio aggrada loro. Il pensiero medico paternalista reclama di imporre il proprio «bene» anche su persone non consenzienti, e lo Sato asseconda questa prassi garantendo agli psichiatri il mandato di coinvolgere le forze dell'ordine per eseguire l'«arresto medico». In simili frangenti, a un uomo che cerca di difendere la propria moglie da un'incarcerazione senza sfondo giuridico non resta che essere portato via dai poliziotti e rischiare una denuncia per resistenza. Direi che queste sono immagini che rievocano con forza le deportazioni che ebbero luogo durante il regime nazista, specie se teniamo conto del coinvolgimento storico degli psichiatri nei programmi di deportazione e sterminio durante la seconda guerra mondiale.

In data 22 agosto mi sono recato presso il reparto di psichiatria dell'Ospedale Umberto I di Torino, chiedendo di poter parlare con Daniela. Sono stato «accolto» dal dott. Giacopini Domenico, direttore del reparto. Mi ha portato in un ufficio, assieme a un paio di suoi infermieri e una non meglio qualificata dottoressa - il classico approccio dei molti «testimoni» contro uno; giusto per pararsi la schiena. Giacopini ha preso a pressarmi con domande su domande sul perchè volessi incontrare Daniela. Era nervoso, l'idea che un ex-utente psichiatrico volesse offrire sostegno morale ad una persona vittima di un tale maltrattamento coatto lo preoccupava. Alla fine mi è stato negato di vedere Daniela, anche solo un attimo. Ho chiesto di poter appurare come stava, e mi è stato «garantito» che sta bene.

La democrazia e la libertà assumono forme inconsuete in questa Torino del Sindaco Chiamparino: le stesse persone che si sono introdotte con la forza in casa della famiglia Vasta, incarcerando in psichiatria Daniela, facendo portare via suo marito dalla polizia, e strappando la loro figlia alla casa per rinchiuderla in una comunità protetta, ora chiedono che ci si accontenti della loro benevola parola per appurare che «va tutto bene».

Giacopini afferma di aver ricevuto direttive esplicite, da parte del Direttore Sanitario dell'Ospedale Umberto I, secondo cui è vietato consentire visite a Daniela da parte di giornalisti e sconosciuti. Detta in breve, in nome della «tutela» psichiatrica le persone vengono spogliate dei diritti civili basilari, inclusa la possibilità di contatti con il mondo esterno.

La verità è che ci troviamo davanti all'ennesimo caso di violenza psichiatrica, come ho avuto modo di vederne a nausea durante i miei anni in psichiatria. La Carta Internazionale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite sancisce che l'uomo ha il diritto ad essere libero dalla paura della persecuzione e dell'incarcerazione arbitraria, ma questo diritto viene raggirato con il pretesto della «cura» psichiatrica.

Io e Giorgio Antonucci lanciamo un appello a tutti coloro che vogliono difendere la libertà: non lasciate che questo sopruso passi innoservato! Esercitate pressione sugli organi competenti affinchè i crimini della psichiatria non passino impuniti.

Al fondo di questa email fornisco i contatti principali ai quali è possibile inoltrare protesta, ma vi chiediamo di adoperarvi a 360 gradi al fine di far conoscere questo vergognoso caso.

Tristano Ajmone 
Presidente OISM


Elenco Contatti Utili:

Dott. Giacopini Domenico, 
direttore del Reparto Psichiatria presso l'Ospedale Umberto I di Torino. 
Tel.: 011/5082.264

Dott. Silvio Falco, 
Direzione Sanitaria Ospedale Umberto I di Torino. 
email: dirsanaz@mauriziano.it

Sergio Chiamparino, 
Sindaco della Città di Torino. 
Tel.: 011/42.3330; 
Fax: 011/442.2031; 
email: urc@comune.torino.it

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