Se questa è arte

Pubblicato da Redazione il
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Le proteste al limite dell'insulto ricevute dall'amico Fabrizio perché ha osato criticare – in un blog di discussione su Internet, intitolando le sue osservazioni "Ma questa è arte?" – le discutibili opere esposte in una recente mostra della Triennale Bovisa, mi inducono alle seguenti riflessioni [1].

Perché la critica – espressa secondo buon senso e buon gusto da parte dell'osservatore ‘non addetto ai lavori', oppure secondo parametri tecnici ed estetici da parte del critico d'arte che conosca la storia – e la libera espressione di giudizio su un'opera d'arte, che sono sempre state il motore dell'arte e di ogni vero rinnovamento, vengono oggi rifiutate?

Perché oggi non è più il linguaggio che deve essere corretto, ma è l'immagine a dover essere "otticamente corretta". E quando è tale, non c'è più ragione di criticare. L'immagine correct è quella fabbricata dal sistema nelle sue cattedrali e nei palazzi del potere, che per l'arte sono i musei. I quali promuovono l'immagine efficace, spettacolare attraverso la proiezione, i fasci di luce, le videoinstallazioni, l'alta definizione, il digitale. È la deriva che porta alla sparizione della pittura, del disegno, della scultura, dell'incisione.

I curatori e i critici compiacenti si pongono come separati dal pubblico: l'arte diventa affare di esperti, mentre gli altri sono esclusi, possono solo partecipare a visite guidate, tanto per informarsi. Giotto, Mantegna, Raffaello, Leonardo però parlavano a tutti.

L'alta definizione e le immagini ingrandite e rese abnormi producono un'attrazione ottica efficace, o terrific, come dicono gli americani, dimenticando che l'etimo della parola è lo stesso concetto di orrore e terrore, altro che meraviglioso. E così anche la pubblicità, che ora celebra se stessa e non più il prodotto reclamizzato, deve essere optically correct.

E nell'otticamente corretto troviamo la demonizzazione delle antiche immagini, una sorta di interdizione della pittura: è vietato dipingere, sono ammesse solamente immagini digitali e videoinstallazioni. Non a caso nelle gallerie d'arte di New York si vedono ormai quasi unicamente videoinstallazioni e fotografie, perché il resto non conta. Le immagini ammesse sono quelle che la tecnica rende attraenti e spettacolari, e con le quali però la qualità di artista non ha nulla a che vedere. Il museo globale, otticamente corretto, partecipa a questa divinizzazione della tecnoscienza. L'essere umano, soggetto e oggetto di ogni autentica ispirazione artistica, scompare per lasciare spazio ad una sua proiezione olografica e digitale, come se al cogito ergo sum cartesiano si sostituisse una sorta di digito ergo sum.

Ora io non voglio ripercorrere la questione, oggetto di numerosi convegni, sulla relazione tra arte e natura, o la polemica sull'abolizione del tema della natura nell'arte contemporanea. Mi limito ad osservare che se una società spinge nella direzione dell'annientamento critico e morale allora è ovvio che ci siano degli artisti che non sono più interessati a realizzare opere che possano suscitare vero interesse, emozione, coinvolgimento e riflessione. Si crea un vuoto che deve esse riempito dai succedanei della società dello spettacolo, del narcisismo e dell'immagine, dove la fotografia e il cinema trionfano.

Se si toglie il riferimento all'essere, alla rappresentazione della natura e dell'uomo, si esce dal campo estetico e si entra in quello di una rappresentazione ‘postumana' e tecnologica, o meccanica, che richiama piuttosto il concetto di fabbricazione o produzione (di film, di foto, di video). Si getta via l'uomo perché è un prodotto della natura, non essendo ancora un artefatto, e come conclusione scompare l'estetica.

Mi sembra che oggi, con l'industria del divertimento "artistico" promossa dai pubblicitari e dalle varie marche, e con l'invasione di campo dei pubblicitari nell'arte contemporanea, ci troviamo spettatori di una specie di eutanasia passiva dell'arte. L'imposizione del "museo globale" e del suo monopolio culturale ed economico su scala mondiale, al quale sono partecipi sia le "case d'arte" Sotheby's e Christie's che i vari musei tipo Guggenheim e le Triennali, ci sta portando verso la contemplazione passiva e la dissoluzione di ogni senso critico.

Ma di fronte al virtuale o al ‘tecnologicamente spettacolare' l'arte dovrebbe prendere le distanze, per non ridursi ad una rappresentazione ipertrofica della realtà, o a una consegna alla pubblicità, come ci aveva avvertito Andy Warhol con le sue rappresentazioni seriali.

Ci siamo più o meno tutti resi conto che è solo il prezzo pagato per un'opera e da chi è stato pagato che rientra nei discorsi salottieri: il mercato dell'arte, al pari di quello dei calciatori o delle star del cinema, fa sognare solo ricchezza. Ma se vi sono persone che hanno soldi propri da buttare, vi sono anche altre che hanno soldi pubblici, sempre da buttare: i curatori e i direttori di musei, di biennali, triennali, etc. E con la stessa logica e le stesse conseguenze: nessun contatto con il pubblico, che comunque viene, non importa che ci sia Michelangelo, Picasso o Burri, perché è l'istituzione, la ricorrenza, che contano e attirano.

Credo che contro una tale degenerazione dell'arte debba essere in prima persona e prima degli altri l'artista a reagire, rappresentando nelle proprie opere, se non la natura, almeno l'uomo e il suo tempo, le sue problematiche, il progresso, e anche le catastrofi, ma umane. Perché è l'attualità dei problemi che ci tocca tutti, non l'estetismo formale e le speculazioni di Christie' o Sotheby's. Mentre gli artisti postmoderni sono convinti che la storia sia finita, che l'arte sia finita, ridotta a stereotipi che si possono soltanto rimescolare, combinandoli in un modo o nell'altro, noi sosteniamo invece che la vita è ricchissima, fluida, imprevedibile proprio negli eventi più semplici e quotidiani.

È tempo che l'uomo si riappropri dell'arte e che l'arte si riappropri dell'uomo. Per fare ciò bisogna riprendere gli attributi umani del corpo, con la danza, con la parola, con l'espressione corporea in genere, evitando di perderci nel virtuale o nel digitale. Non c'è arte senza corpo. L'SOS, save our souls, lanciato nel 1912 dal Titanic che affondava, deve essere oggi sostituito con SOB, save our bodies, salvate i nostri corpi, minacciati dal transgenico e dalle grandi manipolazioni. E quando dico "corpo" non intendo solamente quello fisico, ma anche quello sociale, il "corpus", il gruppo, le associazioni operose di individui pensanti.

Giovanni Bonomo


 [1] ⬆︎ Queste riflessioni sono tratte da Discorso sull'orrore dell'arte, di E. Baj e P. Virilio, Elèuthera ed. , 2002.